Dedicato agli amici cordiali Elena e Gianpaolo, incuriositi dalle vicende del Borgo
Il 13 dicembre del 1545 ebbe inizio il Concilio di Trento. Un evento biblico che si protrasse per diversi anni avente per obiettivo principale quello della definizione di rapporti, impegni e responsabilità incombenti in capo al potere politico e a quello religioso. Una finalità ambiziosa che non venne raggiunta propriamente in quella occasione, ma solo molto tempo dopo. L’auspicio della Chiesa era quello di ricevere favori e supporti da conti e feudatari atti a rinverdire e consolidare la propria egemonia e il proprio interesse sul territorio. Gli storici tramandano che il vescovo di Caserta Bellomo, proprio durante il Concilio di Trento scrisse ben 12 lettere al Conte Acquaviva, sovrano di Caserta, per svendere alla sua famiglia i Casali di Pozzovetere (nei pressi di Casertavecchia) e Puccianiello (sede vescovile dalla fine del 1400 al termine del 1500): unici luoghi donati al clero casertano dai sovrani Normanni non ancora pervenuti nei possedimenti dei nobili conti. E’ curioso notare che nelle 12 epistole il vescovo Bellomo si rivolge agli Acquaviva con la formula “baciamo le mani”. Una forma di prostrazione untuosa e supina che ancora oggi testimonia inciuci di palazzo ed intrallazzi di potere dai quali non è possibile escludere clero, potentati locali e sovrani. Quello dei privilegi che ammantano i vescovi da millenni fu un tema molto caro a Federico ll di Svevia il quale, per contrastare strenuamente tali prebende si guadagnò una scomunica dal papa Innocenzo lll. Puccianiello restò comunque lungamente nelle mani del clero locale e la sua popolazione di agricoltori, artigiani ed allevatori si distinse per aver dato ospitalità ai napoletani che il 28 ottobre del 1922 “marciarono su Roma” e contribuirono ad innalzare il PIL (e la credibilità) della nazione del 20% in circa 4 anni (ad oggi siamo inchiodati a quota zero). Passa il tempo e l’acqua sotto i ponti, ma intrugli e negozi patrimoniali restano l’essenza più autentica di questa società meschina pronta a demonizzare chiunque si orienti in direzione contraria.
...E sembra quasi di ascoltare gli echi lontani di urla e fragori di caccia. Quella che Federico ll di Svevia praticava nei vicini Colli Tifatini con l'ausilio di un falco: la falconeria. Una tecnica acquisita dagli Arabi ai quali l'imperatore affidava con fiducia anche compiti di natura contabile e finanziaria Questo e tanto altro nel Borgo di Caserta Vecchia...Venite a scoprirlo.
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L'Epifania dovrebbe essere un profondo momento di riflessione sui valori umani che oltrepassa luoghi comuni, consumismo e monopoli religiosi. Dal paganesimo al cristianesimo, l'Epifania ha sempre consacrato virtù fondamentali quali la gratitudine verso la Terra, la riconoscenza umana e il rispetto per gli animali. Riscoprire l'Epifania vuol dire lasciarsi incantare dal Tempo e dalle rivelazioni che le antiche pietre dei borghi medievali suggeriscono ancora oggi. Vivere appieno l’Epifania significa arricchire il proprio spirito e fugare le banalità correlate a questo giorno che andrebbe celebrato in ogni momento dell’anno senza pregiudizi né vincoli liturgici. Il fascino delle pietre non risparmia neppure le mura del Borgo di Casertavecchia. Le pietre di chiese, edifici, antiche dimore e nobili palazzi sono preziosi sigilli intrisi di storia. In epoca medievale tutte le pietre preziose venivano solennemente consacrate durante la notte dell’Epifania per propiziare all’umanità Fede e Misericordia. Alcune pietre finivano impropriamente sui paramenti sacri di prelati e sacerdoti per valorizzare e materializzare forse, una sacralità corrotta dalla dissolutezza. Altre pietre, apparentemente senza valore vincevano addirittura le incursioni del tempo ed esaltavano l’umanità raccolta intorno ai focolai per pregare e raccontare antichi prodigi. Meravigliose leggende che narrano di una notte, quella tra il cinque e il sei gennaio, nella quale agli animali custoditi tra le pietre delle stalle veniva dato, per incanto, il dono della parola. Un dono che i contadini temevano silenziosamente per gli eventuali disagi che taluni giudizi sull’umanità potevano ingenerare. La stessa paura e la medesima angoscia che oggi attraversa le nostre coscienze al solo pensiero di essere giudicati da un asino che schernisce l’ineffabile stupidità umana, la pochezza e le miserie del progresso. La notte dell’Epifania è da sempre un solenne momento di “rivelazione”. Lo è sin da i tempi precristiani del paganesimo, allorquando si onorava il sole raggiante di Apollo durante celebrazioni chiamate “compitali”. Anziane donne e vecchietti canuti narravano sotto archi di pietre consacrate dal tempo che si soleva appendere gomitoli e fantocci di lana alle porte e offrire focacce allo scopo di rendere grazie alla servitù per i preziosi servigi resi alla nobiltà e alla terra per i generosi raccolti. L’Epifania era dunque la notte della riconoscenza, un sentimento ancestrale che l’era moderna ha definitivamente eclissato dietro la pienezza del suoi vuoti assordanti. Tra le pietre consacrate dal tempo dell’Epifania si raccontavano storie di dignità che il genere umano ha oramai smarrito e delegato al mondo animale. Ecco perché l’Epifania si traduce nella confessione e nella diffusione di un annuncio che racchiude una scoperta, una sorta di segreto nell’accezione più profonda del suo significato. Le verità rivelate durante la notte dell’Epifania divengono ancora oggi previsioni e presagi svelati dagli anziani di comunità nordiche che cercano di scrutare il futuro tra i fumi di sfavillanti lingue di fuoco accese al cielo
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Solo pochi gradi sopra lo zero, un micidiale vento tagliente e tanta allegria. Quella stillata dal ritmo travolgente dei bottari di Casertavecchia domenica 21 dicembre nella piazza principale del Borgo. Sembra quasi sentire lo strepito dei cavalli di cavalieri erranti avvicendarsi verso le gelide dimore di pietra. Rimbombano fragorosamente i colpi dei suonatori sulle botti di legno maestose collocate dinanzi alla imponente cattedrale normanna. Tremano i vetri delle casette affastellate sui vicoli brulicanti di luci. Le mura illuminate sembrano ergersi sontuosamente tra le armonie di antiche tammorre e motivi della tradizione napoletana. La gente balla sotto le stelle sprezzante del freddo che taglia volti segnati da affanni quotidiani e delusioni finalmente sopite. Donne e uomini deliziati dall' atmosfera senza tempo del Borgo si riappropriano finalmente del proprio entusiasmo e, per pochi momenti, danzano per celebrare la vita. Questo e' il senso della festa e del Natale che si respira a Casertavecchia dove, nonostante tutto, si scorge ancora la spiritualita' e l' essenza della tradizione popolare. Ad attrarre i visitatori estasiati e' sempre l' animazione sospesa che trapela dai sentori storici del sito incantato. Completa il meraviglioso panorama natalizio un susseguirsi di fuochi scoppiettanti, vetrine colorate dai magici spiritelli, mostre di quadri, esposizioni di piante verdeggianti, deliziose bancarelle e profumatissimi dolci. Gli autentici aromi del tempo suggeriscono la natura autentica di una citta' che non si rassegna al malcostume del suo malgoverno e ricerca nelle sue vicende passate e nei popoli che la dominarono le sue radici profonde e la sua dignità.
Passeggiare fra le viuzze di Caserta Vecchia è un’esperienza unica nel suo genere non solo per l’amenità degli abbondanti scorci medievali, ma soprattutto per l’attualità storica che evocano alcune testimonianze. La dominazione sveva del Borgo suggerisce immediatamente l’intento di Federico di Svevia, di suo padre e di suo nonno Federico Barbarossa di costruire un Impero Universale svincolato dai poteri locali e dalle ingerenze ingombranti della Chiesa. L’UE, proiezione dello stesso intento tedesco di supremazia economica e politica di un tempo, obbedisce a fini identici, passando per lo strapotere finanziario della BCE. Anche il mezzo predisposto dai teutonici è simili per certi versi: la tassazione parossistica di redditi e attività produttive preposte alla sottomissione. Anche la tirannide monetaria che la tedesca BCE pratica addebitandoci gli euro che emette assumendone illegittimamente la proprietà incontra un riscontro all’epoca dell’imperatore germanico, allorquando egli pagava stipendi e compensi in monete di cuoio assumendone la potestà finanziaria assoluta. Un pò come dire che dai tempi delle costituzioni melfitane riconducibili all’imperatore tedesco del 1230 all’UE odierna nulla è cambiato, neppure la povertà. I poveri, diseredati e gli umili del Borgo e delle limitrofe frazioni, ricchi solo della propria dignità, solevano unirsi in matrimonio e in preghiera durante le cerimonie religiose nella suggestiva chiesa dell’Annunziata di Caserta Vecchia. Un cammeo d’arte gotica e spiritualità, le cui innumerevoli vicissitudini storiche come incendi e devastazioni richiamano quelle degli indigenti, sfortunati e bisognosi che vi si raccoglievano in religioso silenzio. Oggi alcune chiese del distretto casertano, affrancate dagli obblighi di solidarietà e carità cristiana in nome della volgare opulenza del clero e degli innumerevoli benefici gratuiti ad esso riconosciuti dallo Stato arruffianato e complice, espongono pubblicamente un “tariffario” in lucide bacheche lignee per l’accesso ai sacramenti. In nome di questa profanata sacralità, oggi la Chiesa condanna in combutta con il governo la chiusura degli esercizi commerciali nei giorni festivi. Torna quindi l’inquisizione in versione riveduta e corretta per asservire al malcostume della Chiesa, la massa e la ragione, senza contare che il lavoro domenicale, talvolta, è l’unico espediente per sopravvivere onestamente, o pagare balzelli e tributi che finanziano agi, sperperi e debiti che Stato e Chiesa condividono in astrale coincidenza. Non a caso il papa revocò la scomunica a Federico di Svevia quando i loro interessi economici e politici divennero due facce della stessa medaglia. Il Borgo di Caserta Vecchia, dunque, racconta da solo tutta la storia che ancora non è stata scritta e che pochi hanno osato comprendere. In autunno possono cadere pregiudizi e false credenze come cadono del resto le foglie: è il momento giusto per conoscere l’ anima nascosta del tempo che il Borgo da sempre rivela.
Patrocinato dalle associazioni “Pro Loco Caserta Vecchia”, “Cinema dal Basso” e “Zero Zero Live”, il festival degli artisti di strada che si terrà domenica 6 luglio nelle pittoresche viuzze dell’incantevole Borgo di Caserta Vecchia si annuncia davvero interessante. Una pletora di scultori, pittori, saltimbanchi, giocolieri, attori, musicisti, maghi, astrologi e paranze danzanti si esibiranno sotto le stelle che impreziosiscono i cieli dell’antica Casa Hirta. Finalmente una manifestazione culturale gratuita davvero accessibile a tutti, caratterizzata dalla spiccata matrice popolare. Si tratta di un’espressione squisitamente genuina e autentica che si contrappone alle più blasonate chermesse elitarie, staticamente destinate a pochi privilegiati e alla sterile strumentalizzazione politica che solitamente il Borgo ospita ogni anno. Più vicino alla reale natura e all’indole ancestrale di Caserta Vecchia, il festival degli artisti di strada rappresenta una svolta culturale unica nel suo genere, sia per quanto riguarda i contenuti artistici che sfoggia, sia per gli approcci semplici e spontanei che richiama nell’immaginario collettivo abbattendo barriere e inutili distanze. Tutto il giorno fino alla mezzanotte passeggiare per le stradine di Caserta Vecchia diventerà dunque un’esperienza innovativa votata alla valorizzazione dell’arte in tutte le sue policrome forme. Una verace esperienza enfatizzata da artisti underground che hanno già avuto modo di esibirsi e distinguersi egregiamente per le performance dimostrate in differenti occasioni. Dunque, un’opportunità da non perdere per grandi e piccini che vorranno staccare momentaneamente la spina ad una città moderna e agonizzante che di cultura proprio non ne vuole sapere mentre vive e vegeta di sottocultura amministrativa. Sarà una preziosa occasione per turisti e cittadini che vorranno cogliere aspetti innovativi, suggestioni ed emozioni senza tempo alla luce delle quali apprezzare con maggiore coinvolgimento e partecipazione l’estro umano, la socialità e l’incanto di un Borgo medievale mai abbastanza compreso.
E’ incredibile osservare come la storia medievale possa riproporsi e incrociarsi mirabilmente proprio intorno a castelli e torri edificate in luoghi tanto distinti e distanti. E’ curioso difatti riscontrare che il Castello Scaligero costruito a Valeggio in provincia di Verona in epoca medievale contenga una torre di forma circolare vistosamente diversa dalle altre di aspetto quadrangolare, riconducibile ad un’epoca di molto anteriore l’anno mille e all’estro esclusivo dei Cavalieri Templari. D’altra parte il cosiddetto “Maschio”, così viene individuata la nota torre medievale cilindrica del maniero di Casertavecchia costruita dal 1225 al 1238, fu edificato sotto gli Svevi, fiero popolo teutonico di stirpe germanica, di cui Federico II fu esponente di spicco nel meridione d’Italia. E’ un documentato dato di fatto che le vicende dell’imperatore germanico, proprio durante la realizzazione del castello e della torre di Casertavecchia si intrecciano esattamente con quelle dei cavalieri rosso crociati dell’ordine monastico cavalleresco, meglio noto come Templari. I beni e le ricchezze accumulate dai monaci guerrieri o Cavalieri del Tempio di Salomone, per i servigi resi nel tempo ai pellegrini scortati si profilarono ben presto come un ghiotto boccone per Federico II di Svevia, il quale con i suddetti Cavalieri imbastì relazioni complicate e controverse, spesso estremamente conflittuali. Non a caso, in condizioni economiche precarie, Federico di Svevia si trovò spesso impossibilitato a fronteggiare emergenze di liquidità come quelle odierne, che gli impedirono di pagare addirittura consiglieri, milizia e artefici di mastodontiche strutture architettoniche sparse qua e là nell’impero. Fu così che l’imperatore si mise a coniare monete di cuoio: l’ennesimo riscontro del discusso fenomeno del “signoreggio”, davvero poco diverso da quello attualmente esercitato dalla Banca Centrale Europea. A tale proposito vale la pena ricordare ai lettori che quest’ultima si arricchisce, unitamente ai suoi azionisti (le banche centrali dei singoli paesi) e ai banchieri che fanno parte degli attuali governi emettendo, in luogo delle monete di cuoio tanto care all’imperatore teutonico, grezza cartamoneta al valore nominale, quello stampato a vista. I biglietti così creati dal nulla verranno inizialmente prestati ai singoli stati dietro l’emissione di cartacee promesse di rimborso, i titoli del debito pubblico e, successivamente, restituiti con gli interessi a mezzo di tasse e balzelli gravanti esclusivamente sui poveri contribuenti così soggiogati. Come si vede la storia si ripresenta periodicamente nelle sue linee portanti e l’imperialismo è una grigia costante del tempo, mutante nelle forme esteriori più che nei contenuti essenziali. Sta di fatto che proprio durante l’ innalzamento della torre di Casertavecchia, Federico II di Svevia lanciò violenti attacchi ai Templari confiscando loro dal 1226 al 1231 lasciti e ricchezze di ogni specie ricevute in donazione o in segno di gratitudine dalle famiglie dei pellegrini. La decurtazione degli averi ricevuti in dono da generazioni passate, per la verità è un fenomeno così tremendamente attuale da suggerire immediatamente l’idea del progressivo immiserimento della popolazione meridionale e quella della odierna persecuzione ad opera del fisco in linea con quella subita dai Templari per le mire federiciane. Quindi l’imponente torre tonda che i Templari fecero certamente costruire prima dell’anno mille in territorio veronese, oggi si scaglia nel cielo come un dardo di pietra, imponente come l’opulenza dei cavalieri rosso crociati successivamente esautorati ed espropriati, sprezzante delle rovine dell’uomo e del tempo. Non è azzardato forse pensare che la stessa rutilante abbondanza sottratta dagli Svevi ai Cavalieri Crociati servì in qualche modo ad edificare alcune tra le molteplici opere disseminate in Puglia come in Campania a testimonianza della grandezza Sacro Romano Impero. Non ultima quella della torre di Casertavecchia, la cui forma rotonda sembra quasi sintetizzare la spasmodica avidità di conoscenza alimentata da Federico II a 360 gradi con eclettismo e sconsideratezza, svettante come un segno indelebile del tempo che oggi si rigenera nel debito e nella speculazione piuttosto che nella cultura.
Mille miglia distanti dalla sottocultura che il primo cittadino di Caserta infittisce progressivamente con le solite proposizioni evirate diffuse quotidianamente per sottrarre all’attenzione della popolazione la reale percezione dei problemi del capoluogo, ci piace rammentare alle esigue cerchie di persone sensibili e acculturate del nostro territorio i legami esistenti fra Casertavecchia, il Risorgimento e certi validi artisti della nostra terra dei quali, a torto, si parla e si sa molto poco, nonostante successi e riconoscimenti. Durante il periodo risorgimentale Casertavecchia fu teatro di scontri memorabili fra il reggimento della divisione capeggiata dal generale garibaldino calabrese Francesco Stocco e l’esercito borbonico guidato dal generale Perrone. La battaglia in specie, tenuto conto del valore e dell’audacia dimostrata dall’intrepido condottiero garibaldino, ne predispose la promozione al grado di Maggior Generale dell’Esercito dell’Italia Meridionale con decreto del 16 ottobre del 1860 sottoscritto a Napoli da Garibaldi in persona. Dunque il borgo medievale emerge non soltanto per i fasti delle gesta eroiche di guerrieri nordici e le mirabili opere erette tra le mura fortificate dai Normanni, successivamente consegnate alla comunità integre e per nulla scalfite dal tempo, ma pure per uno stralcio significativo della storia d’Italia incentrato sull’eroismo di Francesco Stocco. Egli, tuttavia, fu tacciato con l’epiteto di agitatore influente capace di esercitare poteri occulti fra le masse e di sobillare e armare la popolazione contro le Truppe Regie solo perché i suoi virgulti rivoluzionari destavano non poche inquietudini nella monarchia e in chi se ne serviva per innalzare la propria egemonia. La comunità asettica e apatica di Terra di Lavoro, prigioniera del cronico letargo che l’attanaglia da tempo immemore, dovrebbe essere a dir poco orgogliosa di celebrare l’eroismo di un personaggio così interessante, valorosamente passato per le strade della splendida Casertavecchia, onde poter attingere dal generale tutto l’impeto e la grinta che non ha mai palesato realmente per affrancarsi dalla cronica strumentalizzazione politica locale. Allo stesso modo la disastrata città di Caserta dovrebbe essere culturalmente grata ad un rutilante artista del luogo che lo scrivente si fregia di conoscere e stimare sin dai tempi dei condivisi studi elementari, l’attore e regista Massimiliano Dau. Questi si distingue per aver saputo interpretare e raccontare appassionatamente nei panni del brigante Caruso, il fenomeno del Risorgimento in chiave critica e disincantata, unitamente ad una pletora di brillanti giovani attori, al camaleontico Massimo D’Apporto che non ha certo bisogno di presentazioni e ad un altro generale, “Il generale dei Briganti”, nell’omonima prima tv andata in onda su Raiuno l’anno scorso in due puntate per la regia di Paolo Poeti. Il personaggio del brigante Caruso (Massimiliano Dau) è senz’altro quello più intrigante, ma anche quello più lucido, truce e tremendamente attuale, avendo dimostrato con tempismo algido e spietato di aver compreso con vigile oggettività che né Garibaldi nè le idee mazziniane di unità nazionale avrebbero mai fatto dei contadini dei proprietari terrieri, di briganti e meridionali uomini liberi e soprattutto degli innumerevoli privilegi che la monarchia assegnava utilitaristicamente a conti, nobili e signorotti, tabula rasa. E’ solo per salvarsi la pelle e sollevarsi dal carcere, non tanto perché è un vile e volgare traditore, che Caruso scende a patti con l’ex consigliere del re, promosso questore nel nuovo ordine conservativo costituito, svelandogli i nascondigli dei suoi compagni briganti al fine di consentirne la cattura. Gli stessi briganti che Caruso ebbe cura di definire emblematicamente “uomini già morti prima ancora di essere catturati”, come del resto chiamerebbe oggi chi ingenuamente sfida il potere e la finanza stringendo patti con voltafaccia e interlocutori inaffidabili come i nostri amministratori. In verità il brigante ha preconizzato con fulminea perspicacia che la causa della giustizia sociale, sbracatamente sbandierata dai moti mazziniani e quella dell’Italia unita, perorata da Garibaldi, che gli avrebbero concesso l’amnistia in cambio di supporti militari, sono poco più di una chimera o, peggio ancora, uno spregevole bluff. Il volto teso dallo sguardo arcigno e diffidente di Caruso interpretato magistralmente dall’attore casertano Massimiliano Dau non cela neppure per un istante che, in seno alla propaganda politica e alle fatue esaltazioni delle lotte popolari si annida l’insidia dell’inganno di chi ha progettato un cambiamento solo presunto che finirà inevitabilmente con il consolidamento di vecchi potentati, sperequazioni, contraddizioni e disuguaglianze, poi drammaticamente acuite sino ai nostri giorni. Cinico, ma al medesimo tempo intransigente e pragmatico il personaggio Caruso espresso con dovizia di particolari da Massimiliano Dau non perde mai colpi, affina piuttosto carattere ed indipendenza quando fumacchia un sigaro a denti serrati in segno di profondo sospetto nei confronti di quelle insolite e anomale alleanze configurate in base al tornaconto dei poteri forti, sordidamente camuffate da sentimenti democratici e unitari che ha dovuto accettare obtorto collo solo per continuare ad essere quello che è sempre stato, un brigante. La fredda circospezione, l’istinto di sopravvivenza e la fede negli ideali popolari e libertari tipici del brigantaggio piuttosto che nelle spinte ondivaghe, mistificatorie e mendaci della presunta politica condivisa reclamizzata anche oggigiorno, non fanno certamente del personaggio Caruso un eroe ma, almeno, un soggetto degno di nota. Gli anni che si susseguirono sino al 1866 rivelarono ben presto un lavacro di nefandezze sorretto da despoti vecchi e nuovi, sinergicamente riuniti in un’unica terribile realtà passata alla storia per linciaggi, giustizia sommaria, deportazioni, onerosi balzelli e ruberie ai danni della povera gente. Il brigante personificato da Massimiliano Dau deve averlo compreso prima, come deve aver capito anche le ragioni della tresca ordita vicino a Cosenza da generali garibaldini e voltagabbana filoborbonici finalizzata alla smobilitazione borbonica in cambio di favori, rendite e adeguate contropartite per i vecchi marpioni. Tanto valeva assicurarsi la vita e la libertà, deve aver pensato Caruso che aveva già prefigurato l’Italia Unitaria come l’orpello di un retaggio di tracotanza e sfruttamento dei meridionali ad uso e consumo di settentrionali, piemontesi e noti lestofanti che avevano solo cambiato casacca e alleati. Caruso, comunque, è chiaramente riconoscibile per essere un uomo che antepone la vita e la libertà personale ai falsi ideali, dapprima inculcati alacremente e poi svenduti come prodotti scaduti e contraffatti per abbindolare le coscienze e soggiogare le fasce deboli della popolazione. Ma la controversa parte di Caruso, recitata peraltro da Massimiliano Dau con netta disinvoltura e solerte maestria, si distingue a parere dello scrivente anche per essere quella di un uomo capace di riconoscere la strumentalizzazione di uno Stato grottesco che ieri come oggi buggera, vessa e raggira con trucchi, guitti pretesti e macilenti contentini i sudditi cittadini, ai quali confisca spietatamente tutto quello che può, anche la vita e la dignità quando occorre, da torvo e miserabile usuraio quale è sempre stato. Scaltro com’è il brigante Caruso identificherebbe i corsi e i ricorsi della sua storia che si replicano sistematicamente anche oggi, guardandosi le spalle da ingordi panciafichisti e voraci parassiti che sventolano ipocritamente il vessillo tricolore di una repubblica sempre più guasta e appestata. “Dobbiamo essere crudeli. Dobbiamo esserlo con la coscienza pulita” scrive l’artista casertano Massimiliano Dau nell’incipit di un noto spettacolo teatrale, dedicato alla seconda guerra mondiale di cui è regista e mirabile interprete. Occorrono davvero poca fantasia e ridottissimi sforzi per adattare la predetta brillante intuizione anche all’attuale stato di diritto e all’odierna democrazia che legittima in religioso silenzio protervia, angherie e soprusi in ogni alveo della quotidianità perché ha bisogno di indigenza, precarietà, dolore e morti per fingere di essere in vita. Grazie, caro Massimiliano, di aver forgiato con l’ estro di sempre maschere e ruoli senza tempo né limiti interpretativi per chi non ha ancora abdicato alla riflessione e al pensiero in favore della cachessia e della decadenza dilagante: in ogni tuo personaggio riesci a sposare come per incanto Cultura e Coscienza.
La storia, da sempre guida maestosa dell’umano pensiero, non smetterà mai di saziare la nostra avidità di sapere attraverso quelle cicliche armonie che il filosofo Vico amava definire “ricorsi”. E’noto che quando nel lontanissimo 1057 i Normanni conquistarono l’antica Casa Hirta, l’attuale borgo sospeso fra gli echi del tempo e i monti Tifatini, la popolazione locale non deve certamente aver fatto i salti di gioia e neppure fragorosi baccanali in onore degli invasori. Sui Normanni aleggiava difatti un’ombra di arcigna austerità, quasi un sinistro presagio davvero poco rassicurante, forse per via della durezza delle gesta impavide e avventurose che quel popolo di incursori evocava. Eppure è fuor di dubbio, oltre che fittamente documentato che le scorribande dei Normanni non furono vane al borgo della antica Caserta dal momento che gli abitanti della fortezza devono ad esse anni di rigoglioso splendore civile e culturale. La sovranità normanna conferì agli antichi casertani momenti di fulgido sviluppo profondamente radicato nell’etica, nell’ordine, nella disciplina oltre che nella valorizzazione della tipicità del luogo, della sua amenità caratteristica, delle sue risorse e dei suoi punti di forza. Dopo mille disordini, vicissitudini e traversie che la videro oggetto di contese e spartizioni fra i principati vicini, Casertavecchia conobbe finalmente, seppur tra contraddizioni e contaminazioni varie, slancio, civiltà e valori che valicarono alacremente le cinta murarie del borgo e del tempo sino a giungere pressoché intatti ai nostri giorni. Peccato che la città nuova, l’attuale Caserta o, come veniva anticamente chiamata “Villaggio Torre”, abbia penosamente sedimentato da lustri il suo carattere anonimo e retrivo, praticamente fuso nel torpore di inetti amministratori erranti per nulla accostabili ai rigorosi Normanni. Sempre rispettato e cautamente presidiato, giammai vilipeso dall’autorità di questi ultimi, il borgo antico di Casertavecchia, ancora oggi esterna orgogliosamente la magia e la suggestione che la dominazione nordica seppe imprimere sapientemente alla civiltà e all’architettura del luogo, forgiando la cattedrale e le viuzze come icone inattaccabili di virtuosità e rigore amministrativo destinate a contrastare il vortice del tempo. Quante volte deve averlo pensato anche il conte inglese Spencer aggirandosi fra torri e campanili rapito dal borgo medievale come da una donna procace, voluttuosa e intrigante alla quale affidare ossessioni, premure e attenzioni. Quante volte superando le intime distanze che lo separavano dai segreti nascosti nel borgo come frammenti di voci lontane cullate dal tempo, egli deve aver celebrato la dignità dei guerrieri e mercanti venuti dal nord. Quanto deve essere grata l’anima vera e pulsante del borgo alla dominazione normanna e alle sue felici intuizioni più che alle aspirazioni amministrative utilitaristiche che impone la modernità decadente forse, non lo sapremo mai. Ai casertani spetta però l’onere di interpretare il messaggio proveniente dal passato, ovvero quello di sapersi rinnovare riscoprendo le origini proprie, quelle della città antica e i motivi ispiratori di civiltà dominanti che si ergono sulle miserie degli effimeri governi attuali.